L’utilizzo del “corsivo” nelle canzoni

Il tema del “corsivo” sta spaccando l’opinione pubblica.

C’è chi cavalca l’hype dell’argomento diventato un trend nelle ultime settimane, chi ne prende nettamente le distanze e viene etichettato come “boomer” e chi, non avendo capito esattamente cosa significhi “parlare in corsivo”, cerca in tutti i modi di comprenderne il senso, incappando spesso in definizioni approssimative e sconclusionate.

Proviamo a fare chiarezza e vediamo, innanzitutto, di cosa parliamo quando parliamo di corsivo.

Il corsivo (o cörsivœ) è un particolare modo di esprimersi, nel mondo giovanile, in cui il finale di ogni parola o frase viene allungato, mantenendo le vocali chiuse, trascinandole, in modo da produrre a livello sonoro una sorta di effetto-cantilena.
I suoni delle sillabe cambiano rispetto al loro suono naturale e il tono, di conseguenza, diviene più acuto.
Una singola vocale si divide in due parti, cioè in due vocali diverse, in modo da formare un dittongo.

Il corsivo nasce come un gioco e sta diventando una sorta di slang dialettale che rende iperbolico e parodistico quello vero (il dialetto milanese dei teenagers), aggiungendo vocali, cambiando accenti, fino a rendere ogni parola acuta, trascinata e cantilenante.

La fortuna virale del corsivo e del personaggio creato dalla Tiktoker Elisa Esposito (la Prof del Corsivo), fa tornare alla memoria, lontanamente, la “Signorina Snob” di Franca Valeri, personaggio amatissimo dagli italiani nei programmi degli anni ’50. 

L’esplosione capillare del corsivo tra i giovani ha contagiato anche il mondo musicale.
O forse è proprio da esso che il corsivo prende spunto e trae le sue radici (?).

Uno dei primi artisti italiani contemporanei a cantare in corsivo è stato senza ombra di dubbio Tha Supreme che ha fatto della pronuncia allungata, allargata, stravolta e masticata il suo marchio di fabbrica autorale.
Basta ascoltare, ad esempio, la sua “Blun7 a Swishland“.

Stesso discorso vale per sua sorella, Mara Sattei, che mescola alla pronuncia corsiva quell’accento tipicamente romano (ascolta “Altalene“)

Pensiamo, poi, a Madame (in “Voce” o “Marea”), a Sangiovanni (in “Malibù” o “Farfalle”), ad Irama (in “Ovunque sarai” e “Cinque gocce“), a Rkomi (inInsuperabile) e al loro modo di cantare, spesso e volentieri, così poco intellegibile dal punto di vista testuale, e in cui il flow (l’andamento o flusso ritmico e sonoro) sembra quasi più importante delle parole stesse.

Due illustri esponenti del “corsivismo” sono Mahmood e Blanco, vincitori dell’ultimo Festival di Sanremo con la canzone “Brividi“, il cui testo non è stato facilmente decifrabile e decodificabile al primo ascolto sul palco dell’Ariston.

Altri due artisti che hanno fatto del corsivo il loro marchio di fabbrica sono il polistrumentista Venerus (ascolta “Namasté“)  e il cantautore Frah Quintale (ascolta “Si, ah“).

L’ anneddoto singolare è che tutti gli artisti menzionati (eccezion fatta per Tha Supreme e Mara Sattei) provengono da Milano o da zone limitrofe del nord Italia e hanno iniziato proprio nella capitale lombarda il loro percorso musicale.
Questo dato confermerebbe, quindi, l’idea di fondo che il corsivo non è altro che una calata o uno slang tipico di alcuni artisti provenienti dallo stesso luogo (l’hinterland milanese) e un modo differente di far risuonare le parole, così come avviene in altri dialetti della nostra tanto amata lingua italiana.

Alla fine di questa lunga disamina, la domanda che sorge spontanea è la seguente: “potevamo fare a meno del corsivo?”
Sicuramente sì.
Sia nella vita reale che in quella digitale, così come nelle canzoni.
Ma essendo un fenomeno impattante nel mondo dei giovani (artisti e non) degli anni venti del duemila, è giusto provare ad analizzarlo e comprenderlo per accorciare in qualche modo la distanza generazionale, mettendo a confronto e in comunicazione dei pubblici, spesso e volentieri, troppo lontani tra loro nel pensiero, nei valori e nelle modalità espressive e comunicative. 

Articolo a cura di Jacopo Ratini


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