La Sagra del Nano (J. Ratini)

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Io e Checco percorrevamo una strada sterrata simile a quelle di campagna.

Avevamo lasciato da soli due minuti l’asfalto dell’A14 e, improvvisamente, c’eravamo imbattuti in quel singolare paesaggio bucolico.

Erano circa le 19 quando, d’un tratto, sul lato destro della carreggiata, notammo un’enorme insegna rossa sulla quale, in caratteri tridimensionali, era scritto:

BENVENUTI ALLA SAGRA DEL NANO.

Checco mi guardò e io ricambiai il suo sguardo: decidemmo di entrare.

Nel parcheggio, le auto (a lume di naso saranno state almeno 300) erano piccole, minuscole, come micromachines e le strisce blu segnaposto contenevano meno di metà carrozzeria della nostra vettura.

Arrivò il parcheggiatore. Era un nano con un grande panama bianco che gli copriva il volto. “Sono due euro Watussi!”, esclamò.

Checco estrasse i soldi dal portamonete e glieli consegnò.

Il nano li prese e ci ringraziò ruttando, poi si voltò e tornò al suo gabbiotto.

All’entrata trovammo un nano seduto su un’altissima scala, simile a quelle dove si posizionano gli arbitri nelle partite di tennis.

Ci invitò a misurarci, indicando un misuratore di altezza collocato al fianco dell’enorme scala.

Il misuratore segnava fino alla tacca da un metro. Sia io, sia Checco lo superavamo di almeno 70 cm.          Il nano ci informò sul prezzo: meno di un metro 5 euro, oltre un metro 10 euro.

Gli porgemmo 10 euro cadauno e finalmente entrammo.

Lì dentro ci saranno stati, senza esagerare, mille nani. Un fiume di gente che sicuramente aveva pagato 5 euro.

Decidemmo di attraversare il fiume trasversalmente, attirati dall’insegna del chiosco degli hot dog.

I nani ci arrivavano pressappoco all’altezza del bacino e, nell’ardua impresa di guadare il fiume, dovemmo fare attenzione a non urtare o calpestare qualche carrozzina o qualche bimbo-nano.

Una volta arrivati al chiosco, notammo che i panini che vendeva avevano dei nomi mai sentiti precedentemente, come il Nano-dog, il Nanito-caliente, il Nano-nano, il Non-solo-nano.

Vista la fame, optammo per il Bigmac-nano, un menù composto da nano-birra di produzione locale, un hamburger con cipolle in salsa nana e da patatine fritte con nano-ketchup.

Decidemmo di sederci per gustare con più tranquillità il nostro pasto ma una volta giunti ai tavoli ci accorgemmo che erano omologati solo per nani.

“Razzisti!”, esclamò Checco, “Se ci fosse ancora il duce spazzerebbe via in un batter d’occhio tutto questo ambaradan”.

Un nano, udite le parole del mio amico, ci venne incontro, scortato da altri cinque nani.

Indossavano giubbotti di pelle nera con le borchie, dei pantaloni a tubo che terminavano in anfibi massicci con punte in ferro e ognuno di loro aveva un piercing su una parte diversa del viso.

In un secondo fummo circondati da una gang di sei nani dai volti decisamente incazzati.

Senza troppi indugi né presentazioni cominciarono a tirare calci in direzione dei nostri stinchi. Evidentemente avevamo sottovalutato la potenza di quei nano anfibi in ferro che, a contatto con l’osso, provocarono un dolore lancinante.

Ci mettemmo non poco a svincolarci dai sei nani, i quali ci rincorsero finché le nostre falcate, decisamente più lunghe delle loro, ci trassero in salvo. Li seminammo e trovammo rifugio dietro un enorme tendone a strisce bianche e blu ad altezza uomo.

All’entrata un nano con il megafono urlava:

“Venite ad assistere allo striptease più sensuale dell’anno, signori!”.

Incuriositi, entrammo. Al centro del tendone c’era un palco sul quale un nano, travestito da Marilyn Monroe, ballava sulle note di Have you ever seen the rain dei Creedance Clearwater Revival.

“Bella musica quella degli anni sessanta”, pensai.

Marilyn si muoveva in maniera poco eccitante ma indossava un vestito rosso con gli strass,

molto sensuale, che le fasciava perfettamente il corpo.

Il nano terminò il suo show tra gli applausi scroscianti del pubblico arrapato in sala.

Sul palco si presentò un altro nano, travestito sempre da Marilyn ma con degli abiti differenti.

Il mio sguardo seguì il nano del primo strip entrare in una porta sul retro del palcoscenico.

La curiosità mi assalì e convinsi Checco a seguirmi.

Sulla porta c’era scritto RISERVATO ALLO STAFF.

Incuranti dell’avviso, l’aprimmo e ci imbattemmo in uno stretto corridoio con tre piccole porte.

Dalla prima porta fuoriusciva un suono metallico.

Ci inginocchiammo, spingemmo la maniglia verso il basso e dentro la stanza c’era un negro che, con in mano un rasoio elettrico, rasava le palle al nano dello strip, nudo, ma con in testa ancora la parrucca di Marilyn Monroe.

Era un nano transessuale: la parte superiore del corpo era di donna con grandi tette sode, mentre la parte inferiore era senza dubbio maschile. Quando il negro udì la porta aprirsi, si voltò verso di noi, ci fissò un istante e con aria seccata ci disse:

“Fuori dalle palle fratelli, non è un lavoro piacevole!”.

Poi si rigirò verso il nano-trans e riprese a tosarlo.

Senza fiatare io e il mio amico seguimmo il suggerimento del negro e, lentamente, richiudemmo la porta dietro di noi. Non appena usciti scoppiammo a ridere.

Onde evitare altre visioni surreali, decidemmo di non aprire la seconda porta ma di andare direttamente verso la terza: l’uscita.

Fuori dal tendone un nano ci chiese se desideravamo della marijuana ma con la testa feci intendere che non eravamo interessati.

D’un tratto fummo sorpresi da un botto risonante, simile allo sparo di un cannone.

La nostra attenzione fu rapita da un’impalcatura rettangolare con sei fori ovali numerati da cui fuoriuscivano sei culi. Vicino a ogni culo c’erano delle bombole di gas aperte.

Sulla parte sinistra dell’impalcatura c’era un presentatore-nano, con in mano un microfono.

Il nano urlò: “Numero tre!” e dal culo dell’ovale numero tre suonò una scorreggia che, a contatto con il gas della bombola, produsse una fiammata di colore azzurro.

Subito nell’aria si diffuse un odore simile a quello della canfora unito a quello di fagioli.

“20 centimetri!”, urlò il presentatore, indicando un misuratore digitale di scorregge sul maxi schermo di fianco a lui.

Il pubblico seduto dinanzi l’impalcatura esplose in urla e applausi fragorosi che si mescolarono all’odore di canfora e fagioli ancora presente nell’aria circostante.

“Numero quattro!”. E un’altra fiammata, stavolta di colore verde, brillò nel cielo.

“27 centimetri gente, è record!”, gridò il nano.

Il pubblico sembrava impazzito.

Non avevo mai visto tanta euforia per una gara di scorregge e pensare che da piccolo, a scuola, quando io e i miei compagni ci sfidavamo in una competizione di peti, puntualmente, per punizione, la maestra ci metteva in piedi dietro la lavagna.

Quindici anni dopo, davanti ai miei occhi, una folla di nani era in delirio per una scorreggia di 27 cm. Chissà che faccia avrebbe fatto la mia maestra?

Io e il mio amico decidemmo di allontanarci da lì, dopo che nell’aria la puzza di canfora e fagioli aveva lasciato posto a un nauseabondo odore di uova marce.

Il tanfo era bestiale ma pareva che i nani non lo percepissero. Sembrava che solo io e Checco fossimo disgustati da quella flatulenza. Invece ci sbagliavamo.

Un nano, schizzato fuori dalla folla in delirio, si diresse verso un grande albero, appoggiò le mani su di esso e, piegatosi in avanti, cominciò a vomitare.

Dalla sua bocca fuoriuscivano altri nani: erano tre, poi un attimo dopo diventarono sei.

Spettacolare: un nano che vomitava nani.

Una volta terminato di vomitare, il nano si pulì la bocca con un fazzoletto poi, rivolto ai nani che aveva rimesso, esclamò con aria seccata:

“Ragazzi fatela finita con questi scherzi del cavolo! Ve l’ho detto mille volte di non nascondervi dentro di me quando giocate a nascondino”.

I sei nani risposero alzando simultaneamente il dito medio della mano destra, lui fece un gesto di disappunto con la testa e si allontanò, ancora borbottando.

Da dietro il grande albero, improvvisamente, spuntò fuori un altro nano.

Era completamente nudo ma racchiuso a sandwich tra due cartelloni bianchi che lo coprivano fronte-retro. Sulla facciata anteriore del primo era scritto:

“SONO IL FIGLIO DI DIO!”.

Effettivamente, a guardarlo bene, sembrava proprio il sosia nano di Gesù come riportato dalle icone cristiane: capelli lunghi, ricci, castani e barba incolta.

Si avvicinò a noi e con aria svampita ci chiese:

“V’avanza per caso qualche spiccio?”.

Checco rispose di no ed io feci lo stesso. Allora aggiunse:

“ ‘na sigaretta ce l’avete regà?”.

Checco gliene regalò una e gli fece anche accendere.

Il piccolo Gesù ci ringraziò e disse:

“Amici miei grazie mille, gentilissimi. Dirò a mio padre di avere un occhio di riguardo per voi, Peace and Love!”.

Poi si allontanò e solo allora leggemmo ciò che era scritto sulla parte posteriore del cartello:

“SI EFFETTUANO MIRACOLI A SOLI 15 EURO”.

“Ammazza quanta gente fulminata che c’è in giro!”, esclamò Checco.

Ce n’era davvero troppa, pensai, anche nel mondo dei nani.

Il suono di un fischietto rapì la nostra attenzione.

Ruotai il capo di sessanta gradi verso est e vidi che era in corso una partita di calcetto tra nani. Avvicinandoci al sintetico notammo che i giocatori non erano dei nani normali, bensì per metà nani e per metà cavalli.

La parte superiore del busto era di essere-umano-nano, mentre dalla vita in giù  erano dei veri e propri cavalli.

E per di più c’eravamo sbagliati perché la partita in corso non era di calcetto ma, come era scritto su di un cartellone pubblicitario a bordo campo, si trattava di un match del torneo di PALLA A NANO. Apparentemente sembrava una normale sfida di palla a mano ma solo dopo un gol capimmo la differenza tra i due sport.

L’attaccante segnò con una bordata da quindici metri e il portiere che aveva subito la rete cominciò a piangere, disperandosi.

“Esagerato!”, esclamò Checco, “Tutta questa scena per un gol, ma vattene va!”.

In effetti quella reazione inusuale sembrava davvero eccessiva.

Ma ancora una volta ci sbagliavamo.

Infatti, i quattro giocatori della squadra che aveva incassato il gol, cominciarono, uno alla volta, a “ingropparsi” il proprio portiere  mentre, sugli spalti, il pubblico esultava sia per il gol, sia per la scena hard.

I quattro nano-cavalli portarono a compimento il loro rituale punitivo poi, dopo una conta, uno di loro si schierò tra i pali, sostituendo il portiere che, esanime, era stato scortato fuori dal campo in barella.

Un nuovo giocatore entrò dalla panchina, le squadre si ricomposero e il pallone venne ricollocato al centro del campo.

“Mica scherzano ‘sti nani!”, pensai.

A rotazione, dopo ogni gol incassato, un giocatore della squadra andava in porta con l’imperativo di difendere i pali, sennò… sarebbe stato “ingroppato”, nel senso letterario del termine.

Come la legge del taglione: occhio per occhio, dente per dente. Spietati ‘sti nani.

La partita riprese.

Ai bordi del campo alcuni nano-cavalli si stavano scaldando.

Uno, in particolare, per allenarsi stava montando una capretta e pompava decisamente forte, con la faccia avvelenata da chi vuole entrare in campo e spaccare tutto.

Un altro, invece, stava utilizzando un tapis roulant a velocità massima e sullo schermo del conta chilometri, dalla rete divisoria, mi accorsi che stava correndo da sei ore e mezza.

Sorprendente il riscaldamento di questi nano-equini, pensai, figuriamoci come potevano essere gli allenamenti.

Con la coda dell’occhio vidi arrivare, in sella a uno scooter, il negro depilatore di palle.

Probabilmente aveva staccato ora dal lavoro.

Indossava una casacca da arbitro e presumibilmente aspettava che il match terminasse per entrare in campo e arbitrare quello successivo. Nell’attesa, si era acceso un sigaro, appoggiandosi con il sedere sulla sella del suo Garelli rosso.

Improvvisamente avvertii un dolore lancinante all’altezza del polpaccio.

Abbassai il capo e vidi un nano che mi stava tirando calci.

Picchiava duro con il piede destro e mi resi conto che si trattava di uno dei nani della nano-gang.

Lo scostai, lui si fermò, m’imbruttì e gridò:

“Ragazzi venite, li ho trovati, stavolta non ci scappano!”.

Da dietro una siepe uscirono fuori undici nani.

Erano raddoppiati rispetto a prima e in mano tenevano delle lunghe mazze nere simili a manganelli e le punte in ferro dei loro anfibi luccicavano come se fossero state appena lustrate.

“So cavoli nostri! Stavolta le prendiamo di brutto!”, esclamò Checco.

Accostai le mie labbra al suo orecchio sinistro e gli sussurrai:

“Non ti preoccupare. Quando te lo dico fa quello che faccio io!”.

I nani, intanto, ci avevano circondato, bloccandoci qualsiasi via di fuga.

Decisi di tentare “il gioco del traditore” e fortunatamente mi riuscì.

“Attenti c’è la polizia!”, urlai, indicando un luogo qualunque alle loro spalle.

Forse questi tipi di gioco-sòla non erano conosciuti da quelle parti dato che i dodici nani si voltarono simultaneamente nella direzione da me indicata, riaprendoci le vie di fuga.

“Seguimi!”, urlai al mio amico.

Corremmo verso il motorino sul quale era appoggiato il negro e, ancora correndo, gli sferrai un calcio all’altezza delle parti intime.

Lui si accasciò al suolo dal dolore, mentre Checco accendeva lo scooter.

In un attimo fummo in sella, schizzando come razzi a tutta velocità, inseguiti, per la seconda volta nella serata, da una gang di nani ancora più avvelenati di quella precedente.

Il Garelli correva. Probabilmente il negro l’aveva modificato.

Anche i nani erano veloci, sembravano dei piccoli struzzi.

Checco si divincolò come meglio poteva tra carrozzine, giostre e stand.

I nani da dietro ci urlavano: “Vi prenderemo, statene certi!”.

Giungemmo alla fine della strada che delimitava la sagra e i fari dello scooter illuminarono un burrone di fronte a noi. Eravamo a un bivio: da un lato, un precipizio ci avrebbe accolto se Checco non avesse tirato il freno; dall’altro, dodici nani incazzati ci avrebbero rivoltato come pedalini se lo avesse fatto.

I nani rallentarono e iniziarono a ridere.

Checco mi domandò: “Che faccio, freno?”.

Gli risposi: “Non ti fermare, non ho voglia di crepare per mano di un nano!”.

Allora lui esclamò:

“Ma dobbiamo morire proprio stasera? Non per niente, ma vorrei almeno avvertire mia madre che non torno per cena!”.

Il Garelli saltò nel vuoto ma non cadde a picco nel fossato.

Si librò nell’aria, volando come la Delorian di Ritorno al futuro,

“Grande McFly!”, esclamai, abbracciando il mio amico.

I nani rimasero basiti sull’orlo del precipizio.

Checco si voltò e col dito medio gli indicò il posto nel quale dovevano recarsi.

Poi, improvvisamente, il motore dello scooter cominciò a rumoreggiare:

“Tiiiin, tiiiin, tiiiin!”. In maniera sempre più incessante e fastidiosa: “Tiiiin, tiiiin, tiiiin!”.

“Svegliati, che è quasi mezzogiorno!”.

Mia madre con due copri pentola di latta in mano: la prima immagine che vidi.

La misi a fuoco, era proprio mia madre… Avevo sognato!

Sembrava tutto così reale eppure si era trattato soltanto di un sogno. Chissà come lo avrebbe interpretato Freud?

“Sistemati che tra poco sarà qui!”, disse mia madre.

“Chi?”, feci io.

“Come chi? La nuova domestica che ho assunto. Te l’avevo detto che sarebbe venuta oggi no?”.

Sicuramente me lo aveva detto ma io… me ne ero completamente dimenticato.

“Sbrigati che sarà qui a momenti e avrà bisogno di una mano per scaricare i bagagli!”.

Mi alzai e mi andai a lavare.

Quando uscii dal bagno mia madre mi chiamò in salone. Appena entrai nella stanza, la vidi e rimasi di stucco.

Era la nano-fotocopia di Marilyn Monroe, esattamente come quella del sogno.

Allungò il nano-braccio verso di me e si presentò: “Piacere, Nanà!”.

Suonarono alla porta.

“Dovrebbe essere il mio ragazzo con i bagagli!”, esclamò sorridendo.

Andai ad aprire e me lo trovai lì di fronte, con l’aria decisamente incazzata, per i bagagli, per le scale, per il caldo o forse, semplicemente, per il calcio che gli avevo tirato nelle palle.

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