L’inventore di favole

L’inventore di favole era stanco.

Stanco di sforzarsi di rincorrere l’idea geniale.

Quella genialità che lo aveva reso popolare, scrivendo le più belle favole di tutta la penisola, per le quali era stato insignito dei premi più illustri.

Le cose erano cambiate.

Lo sentiva nella sua testa, nelle sue mani, nella sua fantasia.

Non aveva più idee.

E pensava che la colpa fosse anche della società.           

Il ventunesimo secolo aveva portato dei cambiamenti inesorabili al suo pubblico: i bambini.

La loro fantasia si era trasformata, annichilita dalla tecnologia.

I computer e i cellulari avevano rubato alla mente la capacità di elaborare pensieri e di sognare.

Si leggevano sempre meno libri di storie e di fiabe, e così il mercato delle favole era entrato in una profonda crisi economica.

Eppure il suo editore credeva ancora fortemente in lui e alla sua capacità di scrivere e di raccontare ed era pronto a investire su un nuovo libro.

Ma l’inventore di favole aveva perso la sua ispirazione.

Erano quasi due anni che non scriveva più nemmeno un rigo.

Affermava che niente era in grado di motivarlo e di stimolarlo.

Proprio lui che era un artigiano della fantasia, un ideatore, un creativo.

Tabula rasa.

Zero assoluto.

Il Rettore dell’Università, un suo carissimo amico, gli aveva concesso un’aula dove, due volte alla settimana, dirigeva un laboratorio di scrittura creativa.

Il corso gli permetteva di pagare l’affitto, le bollette e di vivere dignitosamente.

Pochi extra per cene fuori e uscite.

I soldi che metteva da parte li investiva in libri.

Aveva scoperto una libreria vicino al centro storico, dove trovava libri a buon mercato, sia i classici, sia quelli meno commerciali.

Era convinto che ampliando le sue letture la fantasia sarebbe ritornata.

Così erano due anni che leggeva tutti i giorni senza che le idee venissero a trovarlo.

Il corso di scrittura creativa era comunque un’ottima valvola di sfogo e rappresentava una fonte di orgoglio per lui.

Gli studenti seguivano con attenzione le sue lezioni.

Molti di loro possedevano un’ottima verve creativa e in aula erano nati racconti davvero interessanti. L’inventore di favole li faceva scrivere continuamente e li spronava a trovare nuovi stimoli attraverso nuove letture, nuovi film, nuove canzoni.

Leggeva e correggeva ogni singolo elaborato di fronte a tutti, in modo da renderli consapevoli degli errori ma anche delle potenzialità di ogni singolo elemento del gruppo.

Faceva imparare a memoria, alla classe, il migliore componimento della settimana.

Poi lo faceva recitare a turno a ognuno, perché riteneva che il teatro fosse lo strumento migliore per tenere allenati la memoria e il fisico.

Un pomeriggio, mentre si trovava in libreria s’imbatté nel suo primo libro “Il venditore di nuvole”. Lo prese, lo tenne in mano per un po’, guardò la copertina e sorrise. Poi lo aprì e lo iniziò a sfogliare.

Lo avvicinò al naso: aveva un odore antico.

La data di pubblicazione diceva: sono passati venticinque anni!

Arrivò a pagina cinque, lesse la dedica:

“Ad Anna, per avermi insegnato a vivere nel mondo dei grandi.”

Una lacrima bagnò la sua guancia destra.

Rabbrividì e per un attimo ebbe un nodo in gola che gli impedì di deglutire e respirare.

Poggiò una mano sullo stomaco e cominciò a massaggiarlo lentamente.

Poi spinse forte, verso il diaframma.

Inghiottì il magone e lentamente riprese a respirare con regolarità.

Si asciugò il viso, alzò lo sguardo e si accorse che il commesso lo stava fissando.

Appena i loro sguardi s’incrociarono, lui riprese a spolverare e a sistemare i testi del reparto poesia.

Si diresse verso la cassa con il libro in mano.

Pagò in contanti e disse al cassiere che si trattava di un regalo e quindi, poteva confezionarglielo.

Il cassiere tolse il prezzo, cominciò a incartare il libro.

L’inventore di favole ringraziò, salutò e uscì dal negozio dirigendosi verso la fermata dei pullman.

Quella sera, dopo tanto tempo, scrisse una favola.

La più bella, forse, che abbia mai scritto.

Una delle storie più emozionanti che ancora oggi conosciamo.

Andò a letto e spense la luce. Rimase per un po’ a occhi aperti, a pensare, fissando il soffitto.

Era felice, era tornato a scrivere dopo tanto tempo.

Ripensò alla storia che aveva appena creato.

Poi pensò ad Anna, ai suoi lunghi capelli neri, lisci, ai suoi occhi azzurri, al suo sorriso.

Sorrise.

Il giorno dopo si alzò e fece colazione.

Si lavò, si vestì, prese il cappello, il regalo, la cartella con i fogli scritti la sera precedente e uscì di casa.

Prima di recarsi dal suo editore, entrò nel negozio di fiori sulla piazza e comprò una rosa.

Un autobus lo scortò fino al cimitero.

Si tolse il cappello e percorse il lungo sentiero illuminato.

Arrivò davanti a una lapide e come da rituale, si fece il segno della croce.          

Poggiò la rosa e il pacchetto contente il suo primo libro di favole sulla tomba di Anna.

Con lei, tutto era iniziato e con lei, tutto sarebbe ricominciato ancora.

Ancora una volta.

 

 

 

 

 

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